Un nodo di radici marroni e lisce si dirama sulla parete verticale coperta di muschio come i tentacoli di una piovra gigante aggrappata alla roccia vulcanica. Due metri separano le pareti tortuose di tufo rosso che si sprofondano nel bosco. Una visione che ci spinge ad andare più avanti, laddove le sinuosità della via cava nascondono il sentiero che scende verso il rumore dell’acqua – nella forra.
Siamo appena entrati nel bosco e la luce viva del sole viene sostituita da quella più verde e fresca caratteristica di questi ambienti umidi della Tuscia. Questa è la terra delle necropoli a facciata rupestre. Un territorio vincolato alle formazioni di tufo che scendono dal vulcano Vicano fino a dove incontrano le lave del vulcano di “Bolsena”. Un tufo rosso a scorie nere che presenta le caratteristiche meccaniche idonee per la realizzazione di questo tipo di architettura rupestre.
Ci troviamo a 5 o 6 chilometri del perimetro del cratere vicano, ai margini del cono. Qui le lave non formano più uno strato massiccio come sui fianchi del vulcano, ma la distribuzione dei flussi piroclastici è intimamente legata alla topografia esistente. Come una valanga, gas, cenereri e lapilli incandescenti scendono dai pendii e riempiono le valli, lasciando poco o niente sui punti alti. Diverse colline di calcare emergono dal manto piroclastico come delle isole. Collinette alte 200 metri che esistevano tra il Monte Cimino ed i Monti della Tolfa prima delle eruzioni vulcaniche. Qua a Marturanum, le lave si sono fermate nella valle del Biedano, ai piedi dei monti della Tolfa.
Una valle a forma di conca girata ad Ovest verso le altre necropoli rupestri. Dai margini rialzati di questo bacino nascono i torrenti che incidono il tufo e convergono nel fosso del Biedano. Un fiume che prosegue in direzione dell’antica via Clodia dalla quale viene attraversato due volte – a Blera e Norchia.
400 mila anni fa, gli uomini insediati nel centro Italia hanno probabilmente assistito con diffidenza alle eruzioni che videro nascere il vulcano di Vico. Eruzioni esplosive tra 420 e 410 mila anni che coprirono di pomice un’area molto vasta e crearono la base del cono vulcanico. Cosa avranno pensato di questi fenomeni terrestri i cacciatori-raccoglitori dell’epoca di cui rimangono poco più che pietre scheggiate e bottini di caccia sotto forma di ossa. Nomadi in lotta contro gli elementi della natura come tutti gli altri animali della selva, in competizione con lupi, orsi, leoni delle caverne, cinghiali o erbivori come i mammut.
Centomila anni sono necessari per vedere il vulcano rientrare in attività e completare il cono con l’emissione di lave tefritiche. Altri centomila anni di silenzio prima di assistere all’apparato di Vico proiettare le colonne di ceneri alte chilometri che daranno al vulcano la sua forma attuale. Generazioni e generazioni di Homo si avvicendano, facendo piccoli progressi tecnici, un passo per volta. 500 mila anni passati a cacciare in queste foreste primarie ed a raccogliere frutti, radici, insetti, poi l’eruzione, colonne di ceneri e nubi ardenti che radono al suolo ogni cosa. 150 mila anni fa si formò questo tufo nel cuore del quale ci troviamo. Una trincea tagliata dai probabili discendenti degli uomini che assistettero alla formazione di questi strati lavici.
Uomini diventati sapiens sapiens ormai capaci di lavorare il bronzo ed il ferro, maestri della ceramica, gli etruschi sfruttarono le proprietà meccaniche di queste rocce al contempo tenere e ad alta resistenza strutturale, per creare queste opere monumentali scavate nella roccia.
Tra 2700 e 2500 anni fa gli Etruschi crearono questi monumenti per celebrare il passaggio nell’aldilà, ma anche per esibire la propria ricchezza. Una società ormai complessa e raffinata, dove l’arte, la cucina ed i giochi facevano parte della vita. Pane, erbe, vino, carni di ogni tipo, pesce, bracieri e fastosi banchetti,… gare atletiche che si svolgevano nelle aree intorno alla città, le famose corse di bighe, il giavellotto, il salto, gladiatori,… La musica con il famoso doppio flauto.
Ma nel parco di Marturanum, il nostro viaggio nel tempo si concretizza con questo tufo rosso dove ci troviamo letteralmente immersi tra due pareti verticali. Il tufo scavato dai corsi d’acqua che quasi scompaiono durante l’estate, o come qua, dalla mano dell’uomo, coperto di muschio, ospite di felci, edera, faggi, a volte di grandi foglie di Petasites hybridus o di curiosi Rumex sanguineus lungo i fiumi.
La Tagliata sbocca nella forra. Il rumore discreto e riposante dell’acqua che scorre sulle rocce accompagna il nostro percorso alla prima necropoli. Sulla destra, sei Tombe appaiono sospese alla parete coperta di muschio, radici percorrono la superficie della roccia e avvolgono come se fossero predi le aperture rettangolari dei luoghi sacri. Piccole tombe di forma quadrata con un corridoio di accesso di un metro ca., due letti laterali ed una banchina sul fondo. Le tombe della Palazzina si trovano un paio di metri sopra il ruscello. All’interno della tomba si respira un’atmosfera singolare. I suoni dal mondo esterno sono attutiti e una oscurità di grotta ci isola dalla foresta esterna che si inserisce nella finestra di luce dell’apertura. Un luogo che ormai ha un aspetto ben diverso di quando ci vivevano gli etruschi. Tutte le strutture annesse alle necropoli, le strade, i piccoli campi coltivati, allevamenti sono sostituiti dalla foresta.
Sul pianoro, l’abitato si incentrava intorno all’attuale San Giuliano. Capanne di argilla e graticcio di canna, rotonde o ovali e case di pianta rettangolare con sistema interno a due vani. Queste con blocchi di pietra e alzato in argilla pressata o mattoni crudi, tetto coperto di tegole a doppio spiovente. Una vera e propria città si trovava sopra di noi, sopra il mondo dell’aldilà dove ci troviamo ora, immersi in questa foresta umida che riempie la forra, all’ epoca valle rurale e necropoli. Una moltitudine di tombe rupestri si susseguono lungo la valle del Biedano e in direzione si San Giuliano. Aperture rettangolari nella roccia spesso difficilmente accessibili per via della vegetazione e della pendenza dei terreni. Ma le tombe monumentali meglio preservate sono più avanti, da questo lato del fiume. La Tomba del Cervo, alta quasi metà della forra, è un gigantesco blocco scavato dalla roccia con un lungo dromos ed una camera funeraria molto ampia. Sui fianchi del dado, due scalinate dritte danno accesso al piano superiore. Un’ enigmatica rappresentazione di un cane ed un cervo è scolpita da una parte.